13/05/2013 - 19:30

Ambiente: come è malato il mare

Dal Mediterraneo al Pacifico, via Caraibi e oceano Indiano, il mare è la prima risorsa dell'industria delle vacanze. Un miraggio esistenziale oltre che una meta turistica, alimentato dal mito dei paradisi tropicali, delle isole dei Mari del Sud e dai luoghi comuni dei cataloghi di molti tour operator. L'immensità blu che copre il 71% della superficie del Pianeta non gode di buona salute a causa di vari problemi.
L'effetto serra che innalza il livello dei mari rischiando di sommergere atolli e isole di bassa quota. La pesca indiscriminata che riduce la biodiversità marina, minaccia di estinzione diverse specie e altera gli equilibri biologici degli oceani. L'inquinamento chimico di origine agricola e industriale che crea zone morte con onde che portano a riva tonnellate di alghe. E la plastica che finisce in buona parte negli oceani creando disastri paesaggistici ma anche alterazioni della catena alimentare. La produzione mondiale di plastica è aumentata dai 265 milioni di tonnellate del 2011 ai 280 milioni del 2012. Circa due terzi di questi materiali (pvc, polistirene, poliuretano, policarbonato) sono impiegati per l'imballaggio di merci e cibi destinati al consumo. Secondo Nature, meno del 50% dei rifiuti plastici è stato riciclato o è finito in discarica, il resto è stato disperso in natura: soprattutto nei fiumi e in mare, dove finisce nelle pance di pesci, cetacei, tartarughe, uccelli e altre creature marine. La plastica viene riciclata al 33% in Europa, al 17% negli Stati Uniti (maggiore consumatore mondiale) e al 77% in Giappone (il Paese più affetto dall' overpackaging, uso eccessivo di imballaggi). Secondo l'Onu il 50% delle plastiche in commercio contiene ingredienti altamente tossici e cancerogeni (diossina, Pcb) che, attraverso la catena alimentare (pesce, alghe), finisce nell'organismo umano alimentando tumori. Sempre l'Onu valuta in 5 milioni i pezzi di plastica che vengono scaricati ogni giorno negli oceani. Le correnti dell'oceano Pacifico hanno generato vortici a spirale che nella sua parte centro-boreale hanno aggregato questi rifiuti creando la famigerata isola di plastica (the Great Pacific Garbage Patch), un accumulo di varia spazzatura che ha iniziato a formarsi negli anni '50 del Novecento e - secondo valutazioni della Marina degli Stati Uniti e dell'Algalita Marine Research Foundation - contiene 3,5 milioni di tonnellate di plastica e occupa una superficie di almeno 700.000 kmq (2,33 volte l'Italia). Secondo la Algalita Marine Research Foundation, le isole di plastica sono due: una tra la California e le Hawaii, e un'altra tra le Hawaii e il Giappone. Il 20 maggio partirà dalla California una spedizione di ricerca, guidata dal francese Patrick Deixonne, per valutare la vera entità delle isole di plastica. Approfondimenti sul tema si trovano su Oceano di plastica di Charles Moore, Feltrinelli 2013.

Secondo le ricerche di laboratorio della francese BiodOxis, nel Mediterraneo la plastica si è invece disintegrata in 250 miliardi di micro frammenti di pochi cm che vengono ingeriti dai pesci contaminando anche qui la catena alimentare in senso cancerogeno. Ma si può vivere senza plastica? Non con questo modello di sviluppo. Nei Paesi industrializzati l'industria del packaging rappresenta circa l'1,5% del Pil, è divisa in circa 100.000 ditte che fatturano 500 miliardi di dollari l'anno e impiegano 5 milioni di lavoratori. La plastica, oltre a inquinare le acque, riduce il deperimento dei cibi freschi: il suo uso nei Paesi sviluppati riduce al 3% lo scarto alimentare nella distribuzione, fenomeno che raggiunge il 50% nelle zone più povere del mondo dove i cibi non sono protetti con buste, pellicole o contenitori plastici. Nel Primo Mondo l'uso di cartone, legno, alluminio o vetro in alternativa alla plastica avrebbe effetti disastrosi sul volume degli imballaggi (più 360%) e sul consumo di energia (più 200%) con la conseguente impennata delle emissioni di CO2 (più 270%) e dell'effetto serra. La soluzione è ridurre al minimo il packaging consumando il più possibile merce sfusa, riutilizzare i contenitori e riciclare il 100% dei rifiuti plastici.

I residui chimici in mare. Prodotti dall'impiego di pesticidi in agricoltura e dagli scarichi industriali, i residui chimici che finiscono negli oceani hanno generato più di 400 aree affette da anossia (assenza di ossigeno che elimina o limita le forme di vita) provocate da onde sature di alghe. Basti ricordare le invasioni di alghe rosse nell'Adriatico a partire dagli anni '80. L'area più colpita da questo fenomeno è il delta del Mississippi, 20.000 kmq nel Golfo del Messico (area già inquinata dall'incidente petrolifero nel 2010 della piattaforma BP), a causa di fitofarmaci e concimi chimici impiegati dagli agricoltori del Mid West (il granaio degli Stati Uniti): i loro residui finiscono nel maggiore fiume del Nord America e uccidono il mare. Gli oceani sono anche inquinati da metalli pesanti. E, in due secoli di industrializzazione, il loro livello di acidificazione è aumentato del 30%.

La pesca eccessiva. L'overfishing, o pesca indiscriminata, è il frutto dell'industrializzazione di questa attività, dotata di strumenti sempre più sofisticati che permettono di catturare anche le specie ittiche che vivono in profondità. Nelle grandi reti dei pescherecci tecnologici (giapponesi in testa) finiscono esemplari troppo giovani, bloccando così il ciclo riproduttivo, fondamentale per la conservazione della specie. Si altera così la biodiversità marina, portando all'estinzione alcune specie, come il merluzzo dell'Atlantico. Secondo la Fao, per tornare a una pesca sostenibile l'attività ittica dovrebbe ridursi da qui al 2015 tra il 36 e il 43%. Il depauperamento degli oceani ha risvolti sociali, oltre che ambientali, perché il pesce è la fonte di proteine del 20% dell'umanità, in gran parte nel Terzo mondo, dove le popolazioni di isole e coste si nutrono in prevalenza di pescato.

Effetto serra e innalzamento dei mari. E gravissimo è l'innalzamento del livello degli oceani provocato dal surriscaldamento globale. Il livello dei mari è salito di 20 cm nell'ultimo secolo, ma - a seguito dello scioglimento della calotta artica e dei ghiacciai della Groenlandia - entro il 2100 potrebbe innalzarsi di oltre un metro. Un fenomeno che rischia di sommergere alcune delle isole più belle del mondo, proprio quelle che negli ultimi cinquant'anni sono diventate le più sognate destinazioni turistiche e hanno incarnato la cartolina del paradiso tropicale. Le Maldive, dove per sottolineare il problema c'è stato un consiglio dei ministri sott'acqua con bombole e respiratori. E tutti gli atolli (che raramente raggiungono i 2 m slm), comprese meraviglie universali come Aldabra (Seychelles), Tuamotu (Polinesia Francese), Aitutaki (Isole Cook), Ha'apai (Tonga). Insieme agli atolli (anelli di terra su parti emerse di barriere coralline) rischiano di scomparire le lagune che racchiudono: straordinari esempi di biodiversità marina con migliaia di specie (talvolta endemiche) tra pesci, cetacei, molluschi e microrganismi. Il processo di sommersione è già in corso in arcipelaghi minori del Pacifico come Tuvalu, Kiribati e Carteret (Papua Nuova Guinea), Paesi che oltre a vedere scomparire la loro terra hanno il problema di ricollocare gli abitanti. Il surriscaldamento provoca già da vent'anni disastri ambientali come il niño, il riscaldamento delle acque del Pacifico con conseguente moria di specie ittiche e mutazione degli ecosistemi marini, e dall'intensificarsi di uragani e altri disastri marini. Non a caso la lista dei Paesi a rischio di catastrofi naturali stilata dal World risk report della United Nations University inizia con 4 arcipelaghi del Pacifico: Vanuatu, Tonga, Filippine e Salomone.

Autore: Marco Moretti
fonte: ecoturismoreport.it
Tommaso Tautonico
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