01/01/2013 - 01:00

Subordinazione della sospensione condizionale della pena alla rimozione delle conseguenze dannose del reato

L'accertata realizzazione di opere abusive, che contrastano con la disciplina urbanistica, con quella sismica e con quella paesaggistica rende del tutto legittima e, anzi doverosa, la disposizione giudiziale che prevede la rimozione delle opere e la rimessione in pristino dei luoghi, così come è palesemente legittima la decisione dei giudici di merito di subordinare la sospensione condizionale della pena alla rimozione delle conseguenze dannose del reato - Corte di Cassazione Penale Sez. 3^, 2 febbraio 2012 (Ud. 20/12/2011) Sentenza n. 4436.
La Corte di Cassazione Penale Sez. 3^, 2 febbraio 2012 (Ud. 20/12/2011) Sentenza n. 4436, ha affermato il principio secondo cui l'accertata realizzazione di opere abusive, che contrastano con la disciplina urbanistica, con quella sismica e con quella paesaggistica rende del tutto legittima la decisione dei giudici di merito di subordinare la sospensione condizionale della pena alla rimozione delle opere e alla rimessione in pristino dei luoghi.

La Cassazione ha inoltre statuito che “la natura precaria di un intervento edilizio non coincide con la temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione".

Nella specie, il Tribunale di Palermo con sentenza in data 10 Novembre 2009 aveva condannato il Sig.F. alla pena di venti giorni di arresto e 32.000,00 euro di ammenda, pena sospesa subordinatamente alla demolizione delle opere abusive e alla rimessione in pristino dei luoghi, in ordine al reato previsto dall'art.44, lett.c) del d.P.R. 6 giugno 2001, n.380, così specificata la rubrica, nonché ai reati contestati ai capi d), e), limitatamente alla realizzazione di strutture in metallo e di colonne, e al capo f); il Tribunale aveva, invece, assolto l'imputato dalle restanti condotte contestate ai capi a), d) ed e) e dalle condotte contestate ai capi b) e c) perché il fatto non sussiste.

La Corte di Appello respingeva i motivi di impugnazione relativi al giudizio di responsabilità, alla determinazione della pena e alla subordinazione della sospensione condizionale alla rimozione delle opere abusive.
In particolare, con riferimento al giudizio di responsabilità la Corte di Appello aveva escluso che le strutture metalliche e le colonne in muratura possano definirsi opere precarie o di mera manutenzione e come tali non richiedenti autorizzazione; aveva escluso, inoltre, che la presentazione di denuncia di attività per interventi esclusivamente interni all'edificio possa avere rilievo nel caso in esame; aveva escluso, altresì, che il mancato rispetto delle prescrizioni in materia sismica non operi per l'intervento in esame; aveva escluso, infine, che l'entità delle opere consenta di ritenere non violata la disciplina volta alla tutela paesaggistica.

Avverso tale decisione il Sig.F. proponeva ricorso per cassazione.

Orbene, l'articolato contenuto dei motivi di ricorso, che operano un significativo e ripetuto richiamo a questioni di fatto, ha imposto alla Corte di esaminare la ricostruzione operata dal Tribunale al fine di verificare se le lamentate violazioni di legge trovino un solido fondamento nella natura e nelle caratteristiche delle opere.

Secondo la Cassazione il Tribunale ha affrontato in modo approfondito i profili di ricostruzione del fatto e di rapporto fra la realtà fattuale e la disciplina regionale. Ha osservato il Tribunale: “che la realizzazione di strutture in muratura e di correlate strutture metalliche dà luogo ad interventi che presentano carattere di stabilità; che una parte degli interventi hanno condotto alla chiusura abusiva di tettoie già esistenti, che così si trasformano in veri e propri "volumi" rilevanti ai fini delle autorizzazioni necessarie”. Ha concluso il Tribunale che “alcune opere minori (rivestimenti, pavimenti, infissi) non assumono rilievo penale, neppure sul piano della disciplina antisismica, e devono essere oggetto di sentenza assolutoria, così come occorre pronunciare assoluzione per le violazioni concernenti le opere in cemento armato, di cui non vi è prova; al contrario, sia i volumi ricavati dalle tettoie sia i pilastri in muratura e le strutture metalliche presentano caratteristiche non riconducibili (vedi pag.3 della motivazione e seguenti) tra le "opere precarie" che per l'art.20 della legge regionale invocata dal ricorrente richiedono facilità di rimozione e per tale ragione sono regolarizzabili anche “ex post" (comma quinto del citato art.20)”.

Cosi sintetizzato il percorso motivazionale e l'accertamento operato dal Tribunale, è possibile, sostiene la Corte, comprendere appieno le ragioni esposte dai giudici di appello e dal ricorrente.

Quanto alle questioni concernenti la natura delle opere, la Cassazione rammenta, in via generale, che la giurisprudenza ha affermato che "la natura precaria di una costruzione non dipende dalla natura dei materiali adottati e quindi dalla facilità della rimozione, ma dalle esigenze che il manufatto è destinato a soddisfare e cioè alla stabilità dell'insediamento, indicativa dell'impegno effettivo e durevole del territorio", con la conseguenza che l'opera "deve essere considerata unitariamente e non nelle sue singole componenti" (Terza Sezione Penale, sentenza n.12428 del 7 febbraio 2008, Fioretti; sentenza del 27 maggio 2004, Polito; Cons.Stato, Sez.V, sentenza n.3321 del 15 giugno 2000).

La natura precaria di un intervento edilizio, dunque, non coincide "con la temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale dell'opera ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione" (Sezione Terza Penale, sentenza 27 maggio 2004, Polito).

Muovendo da questi principi che discendono dalla disciplina nazionale, la Corte ritiene che una corretta applicazione della invocata disciplina regionale non possa che prendere le mosse dal testo del citato art.20 e debba considerare che il dato è stato correttamente valorizzato dal Tribunale e dalla Corte di Appello nel momento in cui concentrano l'attenzione sul requisito della agevole rimovibilità delle opere come condizione indispensabile, ancorché non sufficiente, perché le stesse possano essere definite "precarie".

Così escluso che i giudici di merito siano incorsi nel vizio di errata applicazione della legge, la Corte osserva che “non può ravvisarsi alcuna incoerenza o alcun difetto logico nel percorso decisionale esposto dai giudici di merito allorché concludono che la creazione di strutture metalliche portanti, ancorate all'edificio e ricoperte di pannelli in marmo, qualunque sia la modalità di fissaggio, nonché recanti ulteriori strutture di soffittatura ad esse ancorate, dà luogo a un'opera non dotata di carattere di precarietà e comportante la necessità di permesso di costruire”.

Si tratta di valutazione di merito che, in assenza dei richiamati vizi logici, è sottratta alla sfera di controllo del giudice di legittimità. A tale proposito la Corte ricorda come il nuovo testo dell'art.606, lett. e) c.p.p., come modificato dall'art.8, comma primo, lett.b) della legge 20 febbraio 2006, n.46, non autorizzi affatto il ricorrente a fondare la richiesta di annullamento della decisione di merito sulla istanza di una nuova ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio. In conclusione, come precisato dalla sentenza della Sezione Sesta Penale, n.22256 del 2006, Bosco, rv 234148, resta "preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti".

Il Collegio, una volta escluso che la sentenza impugnata meriti censura allorché esclude la natura precaria delle opere, ha evidenziato la manifesta infondatezza della restante parte del primo motivo di ricorso che invoca il principio del "silenzio assenso" sulla istanza proposta successivamente ai fatti, “posto che mai il silenzio della pubblica amministrazione, al pari della dichiarazione di conformità postuma emessa al di fuori della previsione prevista dall'art.32 d.l. 30 settembre 2003, n.269, convertito con legge 24 novembre 2003, n.326 o di quella prevista dal condono introdotto con la legge 15 dicembre 2004, n.308, può attribuire carattere di liceità postuma ad opere realizzate abusivamente stesso (sul punto si rinvia a: Terza Sezione Penale, sentenza n.15053 del 23 gennaio- 13 aprile 2007, Bugelli, rv 236337; sentenza n. 37318 del 3 luglio-10 ottobre 2007, Carusotto e altro, rv 237562); né, tanto meno, può sottrarre al giudice la competenza esclusiva nell'accertamento dei reati commessi; parimenti, si osserva, che l'illiceità accertata non viene meno per il fatto che le parti metalliche della struttura abusiva venivano rimosse in data 3 febbraio 2009”.

Infine, la Cassazione sostiene la infondatezza dei motivi secondo e terzo.

“L'accertata realizzazione di opere abusive, che contrastano con la disciplina urbanistica (capo A), con quella sismica (capi D ed E) e con quella paesaggistica (capo F) rende del tutto legittima e, anzi doverosa, la disposizione giudiziale che prevede la rimozione delle opere e la rimessione in pristino dei luoghi, così come è palesemente legittima la decisione dei giudici di merito di subordinare la sospensione condizionale della pena alla rimozione delle conseguenze dannose del reato (per tutte, Terza Sezione Penale, sentenza n.38071 del 2007, rv 237825), non potendo assumere alcuna rilevanza rispetto alla decisione dei giudici di appello il documento datato dicembre 2011 che la Difesa ha inteso produrre e che, come emerge dal suo contenuto, consiste in una risposta interlocutoria e in una valutazione del tutto provvisoria del competente servizio regionale. A ciò consegue che nessuna censura può essere mossa alla sentenza impugnata e in sede esecutiva potrà farsi luogo all'esame di eventuali situazioni di non compatibilità fra le disposizioni contenute in sentenza e le decisioni che la pubblica amministrazione avrà nel frattempo assunto”.

Sulla base delle considerazioni fin qui svolte, la corte di Cassazione, ha dichiarato inammissibile il ricorso con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art.616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
Andrea Settembre
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