01/01/2013 - 01:00

Indonesia: tagli dei gas ad effetto serra dal 26 al 41%, in difficoltà i Paesi ricchi.

L'ultimo grande paese ad annunciare un piano per il taglio delle sue emissioni di gas serra, scopre le proprie carte, il governo del più popoloso Paese islamico del mondo si dice disposto a ridurre del 26% le sue emissioni.
L'aveva già promesso al vertice G20 a Pittsburgh il presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, lo ha confermato al vertice climatico in corso a Bangkok. Durante il G20, Yudhoyono aveva spiegato che l'Indonesia si era decisa per un piano di azione nazionale sui cambiamenti climatici «in grado di ridurre entro il 2020 le nostre emissioni da Bau (Business as usual) del 26%». Nel gergo dei negoziati internazionali sul clima, per livelli "business as usual" ci si riferisce a cosa accadrebbe se le emissioni aumentassero allo stesso ritmo di quello che ha accompagnato la crescita economica in passato.
"Con il supporto internazionale l'Indonesia potrebbe ridurre le emissioni fino al 41%" commenta il presidente Yudhoyono, aggiungendo che la maggior parte delle loro emissioni provengono da problemi legati alla silvicoltura, come gli incendi delle foreste e la deforestazione. "L'indonesia sta anche esaminando diverse possibilità per cercare di giungere entro il 2050 alla riduzione di miliardi di tonnellate di CO2. Entro il 2030 provvederemo a cambiare lo status delle nostre foreste da settore emettitore netto a "sink sector" netto" commenta ancora il presidente indonesiano.
Si tratta certamente di una svolta, visto che l'Indonesia è uno dei principali distruttori di foresta pluviale del pianeta e che, secondo alcune stime, deforestazione e cancellazione di torbiere e zone umide porterebbero il grande arcipelago ad essere il terzo più grande emettitore mondiale di gas serra. La deforestazione è responsabile di circa il 20% delle emissioni mondiali di gas serra di origine antropica e la salvaguardia delle foreste è uno dei pezzi più importanti del puzzle climatico.
I corposi tagli di gas serra previsti dall'Indonesia dovrebbero essere ottenuti attraverso un mix di fonti energetiche rinnovabili, efficienza energetica e riduzione della deforestazione e il 26 - 41% in meno sarebbe molto di più del 15 - 30% previsto per i Paesi in via di sviluppo nelle bozze di accordo per Copenhagen in discussione nella capitale thailandese.
Noeleen Heyzer, vice-segretario generale dell'Onu e a capo dell'Economic and social commission for Asia and the Pacific dell'Onu, ha sottolineato: «Nel corso degli ultimi sette anni, la regione Asia-Pacifico ha subito l'80% delle perdite globali legate a eventi meteorologici estremi. Il cambiamento climatico è destinato ad aumentare sia la frequenza che l'intensità dei fenomeni meteorologici estremi come pure il numero delle vittime a loro legate. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo della regione sono di fronte a due le sfide legate tra loro: lottare contro la povertà e superare il cambiamento climatico. Fallire in una sfida comprometterà gli sforzi per poter affrontare l'altra. La transizione verso una low carbon economy è già in corso nella regione, ma richiede ancora massicci investimenti».
Rimane il fatto che la decisione indonesiana rischia di spiazzare i paesi industrializzati, che si sono detti disponibili a tagli che vanno a dal 15 al 25% (con il 30% massimo e condizionato alle altrui decisioni dell'Ue), molto meno del 40% in tempi brevi che gli scienziati ritengono necessario per tenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi.
Gli Usa, dopo le aperture obamiane, rischiano di trovarsi nuovamente in retroguardia con un misero 17% di tagli di gas serra proposto e che il Congresso potrebbe anche non approvare prima di Copenaghen. Proprio per questo Climate action network questa settimana ha assegnato il "'Fossil of the day award' agli Usa per evidenziare i ritardi dell'America in materia di lotta al cambiamento climatico.
 
Tommaso Tautonico
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